Piemonte Americano

Piemonte Americano

Sulla cresta della collina si trova questo paese. E’ come se fosse seduto.
Poi, lungo la sottile lingua di strada che si raddrizza verso un’altra vallata, prosegue.
Su entrambi i lati si apre un panorama arioso, mentre sotto, dove scivola a valle, è completamente in ombra, lì c’è molta umidità.
Le colline sono come dinosauri addormentati.
Qui in alto, dove sto camminando io, fa caldo e schiaffi di luce si alternano sincopati con l’ombra prodotta dalle cime dei pini.
Accompagnano per tutto il tratto di strada.
E’ passata da poco l’ora del pranzo e il silenzio naturale mi incuriosisce a tal punto da togliermi le cuffie del mio walkman. Ho gli occhiali da sole e uno zaino con una giacca arrotolata dentro, siamo a marzo e in questo periodo mi concedo lunghe camminate lontano dalla città.
Sono rare le volte in cui scelgo una strada che obbliga un retro front, ma questa volta mi trovo a dover ripercorrere al contrario quel tratto appena descritto.
C’è una grana a metà percorso.
È vietato proseguire.
La luce adesso arriva da destra e si schianta contro la facciata di una vecchia casa bianca che rimane all’angolo del bivio che avrei dovuto scegliere per tornare in città.
La casa con la facciata bianca ha un cortile di fronte a un garage.
La serranda è semi abbassata, si può vedere un bellissimo albero di Limone, rigoglioso, ancorato a un enorme vaso di terracotta.
Mi fa pensare alle macchine da corsa, quelle di Formula Uno, quando sono gialle, ancora nel box.
La marca di sigarette, Camel, che brilla sul musetto anteriore.
C’è questa perfezione ogni tanto nella vita, la perfezione dove la latitudine in questo caso centra poco, forse proprio niente.
C’è un vecchio, nel cortile, seduto di spalle alla strada.
Non lo vedo in faccia, è seduto su uno sgabello che lo costringe ad una seduta un po’ goffa, è vicino alla rete di recinzione e non mi vede.
E’ tutto chino su qualcosa che somiglia a un coperchio.
Non fisso lo sguardo perché mi basta l’impressione di quello che sta facendo.
L’impressione che stia facendo qualcosa che sa solo lui, di antico.
Qualcosa che deve fare in una porzione esatta della giornata.
Che faccia tiepido, come adesso.
Che non ci siano i nipotini e tanto meno i figli, blatererebbero che quello che sta facendo non ha senso e che converrebbe comprarne uno nuovo di quell’affare.
Il mio passaggio è come la soggettiva di un’ape.
Ecco che cosa ho pensato; non mi soffermo.
Vedo tutto, così.
Mi lascio alle spalle il vecchio con tutte le sue cose e proseguo verso la lunga discesa che mi riaccompagna a casa.
Ovviamente quando parlo di silenzio, ne parlo omettendo il canto dei passeri e delle rondini, qualche rombo lontano e il chiocciare delle galline dei pollai agli angoli delle cascine sparse a perdita d’occhio, cani.
La discesa è ripida.
Ho sete, è più di un’ora e mezza che cammino in salita.
Quella poca pianura del villaggio mi aveva soltanto alleviato il fiatone.
Me ne accorgo perché la mia camminata si fa più leggera.
È quel momento che arriva la follia dell’ossigeno.
Immagino un long board abbandonato tra le erbacce del fosso sotto un cartello con le indicazioni stradali.
Immagino di prenderlo e di scendere con prudenza fino a valle.
Ma non c’è per davvero.
E a ogni passo per qualche centinaio di metri provo a capire come sarebbe davvero venire giù da quella strada, silenziosa e senza traffico.
Quasi sei chilometri di discesa.
Verso l’ultimo tornante prima della clinica privata che chiude il circuito ricominciano le case.
I giardini, le antenne, le piscine e i cani, quelli si intensificano dove ci sono più antenne, chissà perché.

Qui c’è più ombra.
Gli alberi sono più alti dei tetti delle villette.
Sulla mia sinistra si apre un giardino enorme, con un prato tenuto benissimo e due cani lupo, adulti.

Una volta un cane lupo adulto mi ha azzannato una caviglia.
Ero poco più che un ragazzino, avevo il motorino, e nella via di casa c’era questo cane lupo sempre senza guinzaglio.
Quel giorno tornando da scuola, mi ritrovai in mezzo alla strada il cane lupo adulto e il proprietario che cercava di fermarlo e legargli il collare al guinzaglio che teneva in mano come un serpente morto.
Io dovetti frenare di colpo.
Il motore rimase borbottante.
Il proprietario strillava parole corte.
Inutili.
Il cane mi vide e mi corse incontro.
Andò a colpo sicuro sulla mia caviglia.
Con un calcio cercai di allontanarlo ma riuscì comunque a mordere il risvolto dei miei jeans.
E strattonava il collo, ringhiando.
Questa cosa consentì al proprietario di afferrarlo e trascinarlo a sé.
E così si quietò.
Ricordo bene che non ebbi paura.
Forse non ne ho nemmeno avuto il tempo.
Non mi fece male e, soprattutto, pensai, che anche io con un padrone come quello mi sarei messo a mordere caviglie alla gente.
Credo volesse farsi portare via, non da me, ma da qualche centro rieducativo per cani, magari anche solo la soppressione.
Quindi da quel giorno penso ai cani lupo come a dei poveri diavoli, indaffarati ad abbaiare forte dietro alle reti di metallo verde o ai cancelli automatici zincati, soltanto perché ci si aspetta questa cosa da loro.
Questi due che abitano il grande giardino hanno già cominciato ad abbaiare, ma io mi trovo ancora a una trentina di metri, lontano.
E non li ho neanche guardati bene.
Anzi.
Però mi devo fermare.
Toccandomi una narice sento caldo.
Epistassi di stagione.
Cerco nello zaino della carta.
Fortunatamente trovo qualcosa.
E mi tampono, poso lo zaino sull’asfalto, un po’ chino verso terra per non gocciolare sulle scarpe.
Questa cosa dura meno di un minuto.
Ma è un minuto incredibile.
Perché quando chiudo lo zaino per rimetterlo in spalla, mi devo voltare verso i cani.
Allora mi accorgo di questa cosa.
Hanno smesso di abbaiare.
Hanno smesso non appena mi sono accucciato, posando lo zaino a terra per cercare della carta.
Loro, fermi, nella stessa posizione iniziale.
Per tutto il tempo.
Avvicinandomi noto un’espressione.
Sono preoccupati per me.
Passo a fianco della recinzione.
E loro mi accompagnano in silenzio fino alla fine della casa.
Con questo fazzoletto a chiazze rosse sotto il naso, io.
E loro che mi seguono con lo sguardo.
Sono preoccupati per me.
E hanno smesso di abbaiare

Quella domenica cambiammo idea